Capiamo come funziona lo Spread e cosa è

Aiuto, è tornato lo spread! Ci avevamo fatto confidenza nel biennio terribile della crisi dei debiti sovrani 2011-’12, ma da almeno 4-5 anni era uscito fuori dai titoli dei giornali, quasi come fosse scomparso. E’ riapparso magicamente la settimana scorsa, quando si è tornati a parlare di allarme sui nostri BTp. Tanta la confusione sul tema tra gli italiani. E non può che essere così, trattandosi di un argomento “tecnico”, per quanto di semplice spiegazione. In questo articolo, vi spieghiamo cos’è e cosa comporta per le nostre vite pratiche.

Lo spread significa letteralmente “solco”, “differenziale” e, in effetti, segnala la differenza tra i rendimenti di due titoli di stato. Quali? Quello di cui parliamo quasi sempre, per non dire sempre, è il cosiddetto spread BTp-Bund a 10 anni, ovvero la differenza tra i rendimenti decennali dei nostri BTp e quelli tedeschi sulla stessa scadenza. Perché bisogna monitorare le variazioni dei rendimenti? Perché il confronto con i Bund emessi dalla Germania? E perché sulla scadenza decennale? I rendimenti di un bond esprimono il grado di fiducia che esso riscuote tra gli investitori. Se un titolo rende il 2% e un altro il 5% per la stessa scadenza significa che il mercato si accontenta di un rendimento inferiore per acquistare il bond del primo emittente, scontando minori rischi. I titoli tedeschi fungono da “benchmark”, da riferimento per tutta l’Eurozona, essendo emessi dalla prima economia dell’area e godendo della tripla A da parte delle agenzie di rating, ovvero della massima valutazione. Insomma, rispecchiano finanze ed economia solide. I 10 anni sono il riferimento temporale a medio-lungo termine, ovvero non troppo lontano e né troppo vicino per chi acquista i bond.

Perché lo spread importa

Cosa segnala lo spread? Come detto, la differenza di rendimento tra due titoli omologhi per scadenza. Quando si allarga, esprime il deterioramento della fiducia tra gli investitori sulla sostenibilità del debito dello stato che ha emesso il titolo a maggiore rendimento. Esempio: ieri, il BTp a 10 anni rendeva in chiusura di seduta il 2,42%, il Bund lo 0,50%. Un mese fa, il primo era all’1,77%, il secondo allo 0,63%. Dunque, lo spread è passato nel frattempo da 114 punti base o l’1,14% a 192 punti base o l’1,92%. Questo significa che i nostri titoli rendono più a premio di poche settimane fa rispetto ai titoli tedeschi, evidentemente perché il mercato si sta fidando relativamente meno dell’Italia rispetto alla Germania. In effetti, sull’impennata hanno pesato le tensioni politiche sulla nascita in corso del governo giallo-verde di Lega e Movimento 5 Stelle, percepito come poco affidabile sul piano fiscale.

Attenzione, perché non sempre le variazioni dello spread segnalano minore o maggiore fiducia di un bond rispetto a un altro. Ad esempio, lo spread Treasury-Bund, il differenziale di rendimento tra titoli USA e quelli tedeschi, tiene conto anche delle variazioni attese del tasso di cambio tra euro e dollaro. Al momento, esso si attesta ai massimi dal 1989, rispecchiando aspettative rialziste sul dollaro e sui tassi USA e la nota divergenza monetaria tra Federal Reserve e BCE di questa fase. Il fattore cambio evidentemente non incide sugli spread interni all’Eurozona, trattandosi di un’area con la stessa moneta.

P.S.: Se il mercato, come nel 2011-’12, inizia a scontare il rischio di un ritorno alle monete nazionali, anche il fattore cambio incide. Un BTp che dovesse essere rimborsato in lire varrebbe molto meno di oggi, per cui lo si acquisterebbe a rendimenti più alti per compensare il rischio. Viceversa, un Bund ridenominato in marchi alletterebbe gli investitori, quand’anche dovesse rendere sottozero, come negli anni recenti per le scadenze fino ai 10 anni.

Spread e conti pubblici

Se sale lo spread stiamo pagando di più il debito? Non esattamente. Lo spread, come abbiamo spiegato sinora, segnala la differenza tra i rendimenti di due titoli, nel caso specifico tra BTp e Bund a 10 anni. Tuttavia, il costo del debito è legato al valore assoluto dei rendimenti. In altre parole, lo spread potrebbe anche salire e i costi sul debito italiano scendere. Facciamo un esempio: a una certa data, il BTp rende l’1,7% e il Bund lo 0,70%. Lo spread è, quindi, pari all’1%. A una data successiva, il BTp rende l’1,50% e il Bund lo 0,20%. Lo spread risulta salito all’1,30%, ma i rendimenti italiani sono effettivamente scesi. Il differenziale si è allargato per il solo fatto che sia sceso ancora di più il rendimento dei titoli tedeschi. Viceversa, potrebbe accadere che lo spread scenda e i rendimenti dei BTp salgano.

Fatta questa premessa, dobbiamo passare a un’altra considerazione. Lo spread riguarda titoli già emessi, ovvero quelli che quotano sul mercato secondario. Le variazioni dei rendimenti dei BTp non rispecchiano necessariamente mutate condizioni strutturali negli umori degli investitori, essendo spesso legate a fattori contingenti. In teoria, lo spread potrebbe anche esplodere, senza che il Tesoro (dunque, il contribuente) ne risenta. Infatti, affinché una lievitazione dello spread si traduca in un aumento dei costi di rifinanziamento del debito deve accadere che, appunto, venga emesso nuovo debito e che i livelli dei rendimenti crescano effettivamente in maniera stabile.

Rendimenti e cedola non sono uguali

L’Italia ha oggi un debito pubblico di circa 2.300 miliardi di euro, quasi interamente in forma di titoli di stato. Su questi, lo stato continuerà a pagare e a iscrivere a bilancio lo stesso costo sostenuto all’atto dell’emissione dei bond e le variazioni dello spread e dei rendimenti influiranno semmai sugli investitori privati che li detengono. Man mano, però, che lo stato dovrà emettere nuovi BTp per rifinanziare i debiti in scadenza e/o per farne di nuovi (colmare il deficit fiscale), dovrà confrontarsi con i nuovi livelli dei rendimenti richiesti dal mercato. E’ evidente, ad esempio, che se il Tesoro dovesse emettere un decennale all’1,50%, mentre questo rende al 2% sul secondario, un investitore non avrebbe alcuna convenienza ad acquistarlo all’asta, visto che qui sconterebbe rendimenti inferiori, ovvero prezzi più alti.

Chiaramente, l’impatto sui conti pubblici non è immediato e quando sentiamo parlare di stime, esse si riferiscono alla lievitazione dei costi a regime, ovvero nel caso in cui i più alti rendimenti restassero tali fino al rifinanziamento totale del debito, operazione che in Italia richiede oggi circa 7 anni per essere completata. Dunque, volendo essere chiari: se i rendimenti medi aumentano stabilmente sul mercato secondario dell’1%, il costo totale del debito salirà anch’esso dell’1%, ma solo quando il Tesoro avrà emesso titoli per un importo pari al debito pregresso e da rifinanziare man mano che esso arriva a scadenza negli anni.

Infine, una ulteriore precisazione: rendimenti e cedola non sono la stessa cosa. Un BTp potrebbe avere cedola al 5% e rendere il 2%. Com’è possibile? Perché oltre agli interessi annui corrisposti, bisogna tenere conto del prezzo a cui un titolo viene emesso o quota sul secondario. Se esso giace sopra la pari, cioè sopra al valore di rimborso alla scadenza, significa che stiamo spendendo di più di quanto il Tesoro stesso ci rimborserà al termine della durata del bond, attratti evidentemente dalla cedola generosa. Viceversa, nel caso in cui comprassimo un titolo sotto la pari. La differenza tra cedola e rendimenti spesso si mostra alta, risentendo del fatto che quando il titolo era stato emesso, il suo rendimento fosse diverso da quello odierno e quasi certamente molto in linea con la cedola allora offerta, la quale in un secondo momento potrebbe risultare alta o bassa, a seconda delle mutate condizioni del mercato.

 

 

Fonte: investireoggi.it